Esiste il vuoto?

Si è ritenuto opportuno riportare un articolo apparso sulla rivista il Montani, N° 3-4, dicembre 2000, in memoria di Mario Guidone.
Articolo il cui contenuto è legato ad alcuni strumenti presentati in questo sito.
   Mario Guidone, fisico teorico con vasta e profonda cultura, ha insegnato per più di trenta anni al Montani. Fra le sue  molteplici attività, ha ideato e realizzato due importanti convegni: il primo nel 1985 su Temistocle Calzecchi Onesti ed il secondo nel 1999 su Roberto Clemens Galletti de Cadilhac, sul quale ha scritto un libro.
  Inoltre ha scritto numerosissimi articoli divulgativi; in particolare per la rivista Il Montani. In molti di questi articoli riusciva elegantemente a collegare la scienza con Dante Alighieri, con Freud, con Piero della Francesca, ecc. .


     ESISTE Il VUOTO?
              Mario Guidone
         Esiste dunque uno spazio impalpabile, vuoto. Se non vi fosse le cose non si potrebbero muovere.
                                             (Lucrezio, De rerum natura, II, 334-36)
    Nella rivoluzione scientifica del XVII secolo sono apparsi molti strumenti di osservazione e di misura, non solo in fisica, ma anche in biologia e in medicina(1). La scoperta del vuoto barometrico di Gaspare Berti ed Evangelista Torricelli, discepoli galileiani, ha avuto lo stesso valore dirompente della scoperta del cannocchiale. Da allora i miglioramenti nelle tecniche di produzione del vuoto hanno proceduto di pari passo con i progressi della fisica, della chimica, dell’ingegneria. Ci limiteremo a citare quel particolare tubo a vuoto, il tubo catodico, che ha permesso la scoperta dell’elettrone [J. J. Thomson, 1897] e oggi è in tutti gli apparecchi televisivi {nell’anno 2000, N. d. F.P.}. Una scienza del vuoto altamente progredita sostiene pure la rivoluzione microelettronica, che tanto incide sul nostro modo di vivere; e la fisica di punta, scopre negli ambienti estremamente rarefatti dei grandi acceleratori di particelle, strati sempre più profondi della materia.
    Berti e Torricelli introdussero il vuoto nella fisica. Nei duemila anni precedenti l’esistenza o la non esistenza di spazi vuoti era stato l’argomento di pertinenza esclusiva dei filosofi.
    Per i filosofi atomisti della Jonia, come Leucippo e Democrito, l’esistenza del vuoto era indispensabile.
    Perché gli atomi possano muoversi è necessario uno spazio vuoto di materia e, indipendente da questa, una specie di scatola  contenitrice  entro cui gli atomi possano spostarsi da un luogo all’altro. Questo contenitore si può espandere indipendentemente, e assumere un’estensione illimitata, in cui è contenuto ogni atomo. Perché un atomo fuori del contenitore non ha senso. Newton era atomista, e perciò come Democrito ha postulato uno spazio-contenitore.
    Aristotele ha cercato invece di dimostrare, da ogni punto di vista, che uno spazio vuoto non esiste. Fra le molte dimostrazioni che si trovano nella sua Fisica, ne abbiamo scelta una che è interessante, perché fa vedere cosa può succedere quando la premessa di una argomentazione è falsa. La legge di caduta dei gravi, nella forma stabilita da Aristotele, e aspramente criticata da Galileo, vuole che la velocità di caduta dei gravi sia proporzionale al loro peso. Ne segue che le rispettive velocità di due gravi stanno fra loro nello stesso rapporto dei pesi; se i pesi sono diseguali, sono diseguali le velocità, e tutto questo deve valere anche nel vuoto fisico. Ma il vuoto non definisce luoghi o direzioni speciali, non comporta alcuna differenziazione, neppure della velocità nel vuoto, per la sua natura, tutti i corpi devono cadere con la stessa velocità(*). Questa è proprio la legge sostenuta da Galileo, e valida anche oggi. Aristotele la respinge, perché contraddice la sua premessa, e perciò respinge l’esistenza del vuoto, causa della contraddizione.
   Aristotele è il padre della logica, e formalmente la sua dimostrazione è corretta. Ma la premessa è fisicamente falsa; e, come si vede, ne deriva una conseguenza vera: da una premessa falsa si può dedurre qualsiasi cosa, anche una proposizione vera(2).
 Occorre però dire che la posizione di Aristotele era coerente: lo spazio per lui era il volume occupato dalla materia continua, senza buchi né vuoti. L’esistenza di uno spazio vuoto, che non contenga niente ma che potrebbe contenere qualcosa, significa semplicemente che il vuoto non esiste.
  Per la teoria della gravitazione einsteiniana, e per le attuali teorie dei campi quantistici, non è possibile distinguere la materia dal vuoto, come hanno potuto fare Democrito e Newton; riguardo al vuoto la fisica contemporanea ha una posizione simile a quella di Aristotele.
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  (*) Nota di Fabio Panfili.  Nel libro Discorsi e Dimostrazioni Matematiche intorno a due nuove scienze attinenti alla Meccanica e i movimenti locali Galileo scrive: “Quando dunque osservo una pietra che discende dall’alto a partire dalla quiete, acquista via via nuovi incrementi di velocità, perché non dovrei credere che tali aumenti avvengano secondo la più semplice e più ovvia proporzione? Ora, se consideriamo attentamente la cosa, non troveremo nessun aumento o incremento più semplice di quello che aumenta sempre nel medesimo modo. Il che facilmente intenderemo considerando la stretta connessione tra tempo e moto: come infatti la equabilità e uniformità del moto si concepisce sulla base dell’eguaglianza dei tempi e degli spazi (infatti chiamiamo equabile il moto allorché in tempi uguali vengono percorsi spazi uguali), così, mediante una medesima suddivisione uniforma del tempo, possiamo concepire che gli incrementi di velocità avvengano con [altrettanta] semplicità …”   Quanto detto nel testo si deve dunque intendere nel senso che: “tutti i corpi devono cadere con la stessa accelerazione”.
Galileo cercava di dimostrare che due corpi di diversa massa, cadendo dalla stessa altezza, impiegano lo stesso tempo a giungere a terra. E confutò il ragionamento di Aristotele che attribuiva le velocità dei corpi in caduta proporzionali alla loro massa, con la supposizione che, durante la caduta, due corpi di massa diversa si unissero dando luogo ad un unico corpo di massa maggiore, che avrebbe avuto maggiore velocità di caduta di entrambi.  Mentre, secondo Aristotele, il corpo più leggero avrebbe dovuto ritardare quello più pesante: da qui la evidente contraddizione insita nella teoria aristotelica.
  (1) Questo si deve principalmente alla matematizzazione dei vari comparti della scienza. Descartes ridusse la biologia a fisica; il medico Santorre Santorio, collega di Galileo a Padova, introdusse metodi quantitativi in fisiologia, con il termometro clinico, il pulsilogio per la misura della pulsazione arteriosa, la bilancia per il controllo del metabolismo.  Anche Harvey, lo scopritore del circolo sanguigno, dette ai suoi argomenti una veste quantitativa.
 (2) La filosofia scolastica aveva la regola: «Ex absurdo sequitur quod libet», che vuol dire: «Da  una cosa assurda si può dedurre ciò che si vuole».
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  L’horror vacui.
  Nel Trattato dell’equilibrio dei fluidi (1648) Pascal ha scritto che nel suo tempo esisteva un consenso unanime degli uomini e di tutti i filosofi sul principio che la natura preferirebbe essere distrutta piuttosto che tollerare il minimo spazio vuoto. Questa ripugnanza della natura per il vuoto, così enunciata, è un principio animistico che trasferisce alla natura le nostre fobie(3); ma non fu contestato prima della rivoluzione scientifica del XVII secolo.
  Galileo fece uso di spiegazioni connesse con l’«horror vacui»; ma riteneva che la ripugnanza della natura fosse talvolta superabile. Un primo esempio della ripugnanza per il vuoto ci viene dalla interpretazione del funzionamento del termoscopio, che Galileo Galilei costruì a Padova tra la fine del 1606 e il l607, secondo la ricostruzione di Stillman Drake(4).  Il termoscopio è l’antenato del termometro: non misura le temperature, ma permette di stabilire quale tra due corpi ha la maggiore temperatura. Il termometro con una scala oggettiva di lettura non apparve, infatti, prima del 1700.
  Possediamo una eccellente descrizione del termoscopio in una lettera di padre Benedetto Castelli, discepolo e poi amico affezionato e collaboratore di Galileo(5).
  Questi aveva mostrato a Castelli lo strumento «da esaminare i gradi del caldo e del freddo» circa trentacinque anni prima. Lo schizzo in fig. 1 è di Castelli: lo strumento era composto da una boccia di vetro, la «caraffella››, grande quanto un uovo di gallina e con un collo lungo due o tre palmi e sottile come stelo di grano.
  Si scaldava la «caraffella» tra le palme delle mani; lo strumento veniva poi capovolto, e la bocca tuffata nell’acqua di un vaso sottostante. La caraffella si raffreddava quando si allontanavano le mani; e si poteva osservare l’acqua del vaso salire nel collo dello strumento, anche più di un palmo. La spiegazione del funzionamento data da Castelli è molto semplice: l’aria della caraffa si contrae con il raffreddamento, e il suo posto è preso dall’acqua(6).
  Galileo è più esplicito. In un frammento, di data incerta, ha descritto così l’ascesa dell’acqua: «… l’acqua salirà ad occupare il posto lasciato dall’aria, perché non si abbia il vuoto (Ne detur vacuum)››.
  Sembra dunque che l’acqua sale nello strumento perché non si produca un vuoto che ripugna alla natura. I termoscopi ad aria avevano tutti un difetto: anche quando la temperatura della boccia era costante, il menisco dell’acqua non era stabile. La spiegazione è divenuta possibile solo alla metà del secolo, per i contributi di Torricelli e Pascal. La pressione atmosferica sulla superficie dell’acqua nel vaso si trasmette integralmente, per il principio di Pascal, all’imboccatura del collo del termoscopio; sostiene la colonna d’acqua e anche la pressione dell’aria nella caraffella, trasmessa dalla colonna d’acqua. La pressione atmosferica è variabile, e così varia anche l’altezza della colonna d’acqua, per cause non termiche.
   A questo strumento si addice forse il nome di «termobaroscopio››.
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 (3) In realtà l’horror vacui è l’altra faccia dell’inconscia vertigine da cui siamo affascinati.
(4) S. Drake, Galileo, Bologna, 1988, pp. 182-83.
(5) B. Castelli, Lettera a V. Cesarini, 20 settembre 1638, in Galilei, Opere, XVI, pp. 357-80.
(6) Era regola delle scuole filosofiche citate da Galileo «frigidi est condensare», ma non sempre il freddo restringe: l’esempio del ghiaccio e dell’acqua è noto a tutti.
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  L’enigma delle 18 braccia.
  Nel XV secolo la pompa aspirante assunse grande importanza, e i dispositivi per il sollevamento delle acque rivelarono molti progressi. Non furono inventati nuovi congegni, ma furono molti i perfezionamenti, dovuti soprattutto all’uso dei metalli in sostituzione del legno; la pompa aspirante ha precorso la macchina a vapore.
  In fig. 2 se ne vede un tipo molto semplice tra le molte mostrate da Agricola (G. Bauer). Sulla sorgente è posta una piattaforma attraverso la quale passa un tubo che è spinto fino al fondo della sorgente e fissato con ganci di ferro. La parte inferiore del tubo è contenuta in un tronco [D] cavo come il tubo, chiuso in fondo ma con aperture per l’ingresso dell’acqua. Nella parte superiore di questo tronco è posta una valvola che non permette all’acqua aspirata di tornare indietro. Un’apertura [G] in alto serve allo scarico dell’acqua nel canale di scolo.
  Il pistone porta un disco circolare a tenuta, con cinque fori a stella che possono essere coperti.
  Quando l’addetto alla pompa tira in alto il pistone, l’acqua che è entrata dai fori del disco, che ora è coperto, viene innalzata fino allo sbocco. Si apre allora la valvola sul tronco, e l’acqua nel tronco è aspirata e sale nel tubo.
Quando il pistone è spinto in basso, la valvola si chiude e altra acqua passa attraverso i fori del disco.
  Galileo fu indotto a studiare la questione del vuoto da problemi di ingegneria idraulica. L’insegnamento di Ostilio Ricci lo aveva predisposto a guardare alla matematica anche con occhi di ingegnere; e nei diciotto anni trascorsi a Padova ha intessuto un nutrito carteggio con ingegneri e sovrintendenti alle opere civili e militari su questioni di matematica e fisica riguardanti la balistica, le fortificazioni, ma anche la canalizzazione dei fiumi e il sollevamento delle acque(7). E fu il sollevamento delle acque a presentargli un quesito che per lungo tempo lo lasciò «con la mente ingombrata di maraviglia e vota di intelligenza››.
  Nei Discorsi l’enigma sorge dallo svuotamento di una cisterna. Lo svuotamento avviene per attrazione; vale a dire che il dispositivo di aspirazione è posto in alto, all’estremità superiore del cannone, il tubo cilindrico che convoglia l’acqua. L’ordigno faceva il suo lavoro, e il livello dell’acqua scendeva regolarmente nella cisterna; ma scesa l’acqua a una certa profondità, il dispositivo si era fermato. L’acqua aveva superato il dislivello di 18 braccia, e questo è un limite invalicabile nel sollevamento dell’acqua per attrazione. Il motivo è semplice, per noi, e la pompa della fig. 2 fa al caso nostro. Se Po è la pressione atmosferica che si esercita sulla superficie dell’acqua della sorgente, l’acqua è aspirata solo quando Po supera la pressione della colonna dell’acqua sulla base. Non può esserci aspirazione se Po è inferiore alla pressione dell’acqua sul tubo. La pressione atmosferica media, al livello del mare, corrisponde per definizione alla pressione esercitata da una colonna d’acqua alta 10,33 metri, 18 braccia circa, quando la colonna d’acqua nella pompa raggiunge l’altezza di 18 braccia non c’è più aspirazione, ed è evidente che l’altezza limite di aspirazione dell’acqua varia con il variare della pressione atmosferica. Con l’alta pressione l’acqua sale di più che con la bassa pressione. Galileo ha esposto la sua soluzione nei Discorsi, utilizzando il modello della «corda di acqua››. Se una corda di rame sospesa in alto è continuamente allungata con del rame, fermo restando il diametro della corda, non c’è dubbio che infine sarà strappata dal suo stesso peso; allo stesso modo si comporta un cilindro d’acqua, fissato in alto sul disco del pistone e allungato senza sosta: raggiungerà il limite di rottura. E per l’acqua la rottura è molto più agevole, perché le parti dell’acqua mancano «del tenacissimo attaccamento delle parti» che è nel ferro o in altra materia solida. L’acqua invece deve la sua coesione, alla «resistenza del vacuo››, la resistenza alla divisione dei corpi che nasce dalla ripugnanza della materia per il vuoto. Lo si comprende immaginando due piastre levigate squisitamente, di marmo, di metallo, o di vetro, perfettamente sovrapponibili, in modo che tra le superfici affacciate non resti alcunché di materiale. Quando si cerca di separarle tenendole equidistanti, la ripugnanza per il vuoto è tanto forte che la piastra superiore si tira dietro l’altra e la tiene perpetuamente sollevata, quali che siano il suo peso e il suo volume.
   «Traspare qui – osserva Galileo – l’orrore della natura nel dover ammettere, anche solo per un tempuscolo, lo spazio vuoto che rimarrebbe tra le piastre, prima che il concorso delle parti dell’aria circostante lo possa occupare››.
  Galileo dimostra anche che il moto nel vuoto non è istantaneo, come voleva Aristotele, e perciò «il vacuo talora si concede, sia pure con violenza e contro natura››. La resistenza del vuoto non risiede solo tra le piastre dell’esempio precedente, ma risiede allo stesso modo tra le parti dei solidi, e contribuisce alla loro coesione. Galileo ha proposto questa definizione per la resistenza del vuoto: «Tutte le volte che noi peseremo l’acqua contenuta in 18 braccia di cannone, sia largo o stretto, haremo il valore della resistenza del vacuo nei cilindri di qualsiasi materia solida, grossi quanto sono i concavi dei cannoni proposti››. Secondo la definizione dobbiamo eguagliare il peso di una colonna d’acqua alta ho = 18 braccia e peso specifico relativo 1 al peso di un cilindro materiale, con la stessa sezione G, con altezza al limite di rottura h, dovuta anch’essa alla resistenza del vuoto, e peso specifico g.
  Si ha: ho ∙ G = g h G, ossia ha = 7 h  (l). La (1) permette di calcolare, date le 18 braccia di ho le altezze limite di tutti i materiali; Galileo ponendo eguale a 9 il peso specifico del rame rispetto all’acqua, dalla (1) ha trovato per il rame h = 2 braccia. Ma la resistenza del vuoto e indeterminata: non può essere misurata dal peso di un cilindro d’acqua, perché il peso dipende dalla sezione, mentre la sezione del cannone non influisce sulla resistenza del vuoto e sull’altezza limite h. E se questa, come sappiamo, dipende dalla pressione atmosferica, ne deve dipendere anche la resistenza del vuoto, cosa assai improbabile. Si può concludere che la resistenza del vuoto è un costrutto ad hoc, inventato per dotare di coesione l’acqua, e deriva da un principio, quello dell’horror vacui, non ben fondato fisicamente.
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(7) G. Galilei, Discorsi e dimostrazioni matematiche intorno a due nuove scienze, a cura di Carugo e Geymonat, Boringhieri, 1958, pp. 605-607.
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   Il sifone
   Prima di esporre il modello della corda d’acqua nei Discorsi, Galileo lo aveva comunicato al genovese Giovan Battista Baliani, valente cultore di fisica, e suo buon amico e seguace.
  Nel 1630, Baliani aveva chiesto lumi a Galileo su un sifone che avrebbe dovuto portare l’acqua dalle colline genovesi in città, ma non lo faceva(8).
   Nella fig. 3 in A è la presa d’acqua, in B lo scarico; la linea di livello è CA. Il massimo di dislivello DE imposto all’acqua era di 36 braccia, D era l’imbuto per il riempimento del sifone e il suo innesco.
   Accadeva che quando si chiudeva D l’acqua uscisse da un lato e dall’altro, come se nel canale ci fossero infiltrazioni d’aria; ma non si erano trovate fessure. E succedeva anche che, quando l’acqua da D scendeva verso la bocca A, aperta. Il suo flusso si arrestava quando il tratto DF era
vuoto; la bocca A, aperta, il suo flusso si arrestava quando il tratto DF era vuoto; la quota di F era la metà di DE, cioè 18 braccia. Il tubo DA si comportava come un barometro ad acqua, come vedremo.
   Galileo si disse dispiaciuto di non essere stato consultato prima dell’acquisto del materiale (9). Avrebbe potuto far risparmiare quella spesa, «dimostrando l’impossibilità del quesito, la quale dipende da un problema meraviglioso assai» che credeva di aver risolto: il problema delle 18 braccia. Galileo espose a Baliani le sue idee sulle corde d’acqua e sulla resistenza del vuoto, e fece osservare che anche un dislivello inferiore alle 36 braccia avrebbe potuto strappare la corda d’acqua nel canale; né giovava l’inclinazione, perché la maggior lunghezza, e quindi la maggior quantità di acqua nel canale inclinato, compensava esattamente l’aumento di resistenza del peso sollevato verticalmente(10).
   Quanto al tratto A F del canale, la corda d’acqua è al limite di aspirazione, e non può essere ulteriormente allungata. Baliani riconobbe di non aver distinto il sollevamento per attrazione dal sollevamento per impulso, in cui il limite è unicamente dato dalla resistenza dei tubi; per questo non c’è limite di mandata.
  Baliani credeva nelle possibilità del vuoto, da quando Galileo gli aveva indicato un metodo per pesar l’aria: e riconobbe questo vuoto (vuoto barometrico) nel tratto DF del sifone. Noi non sentiamo il peso dell’aria, stando nella sua immensità, perché l’aria ci spinge egualmente da tutte le parti (principio di Pascal); ma se potessimo stare nel vuoto, sentiremmo tutto il peso dell’aria sulla testa: è quel che succede nella colonna barometrica, sostenuta dalla pressione atmosferica. Il peso dell’aria è forse molto grande, ma non infinito; con una forza proporzionata a quel peso si potrebbe fare il vuoto, separando l’aria. Galileo lasciò cadere il promettente approccio di Baliani e aderì fino in fondo al modello della corda d’acqua, e della resistenza del vuoto. Egli insegnò a pesare l’aria, ma non comprese il ruolo della pressione atmosferica, lasciando la scoperta ai suoi allievi, ma certamente, nel lavorìo che precedette la scoperta di Torricelli, fu un punto di riferimento insostituibile.
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(8) Lettera di G. B. Baliani a Galilei, 27 luglio 1630, Opere, XIV, pp.l24-25.
(9) Lettera di Galilei a G. B. Baliani 6 agosto 1630, Opere, XIV, pp. l27-30.
(10) La natura non si può ingannare: in tutti gli strumenti meccanici «quanto si guadagna di forza  per mezzo loro si scapita nel tempo e nella velocità›› (La Meccanica, Opere, II. p. 85).

    L’esperienza di Torricelli.
    Evangelista Torricelli, membro della scuola galileiana di Roma, fu mandato da padre Castelli ad Arcetri, dove fece da segretario a Galileo, nei suoi ultimi tre mesi di vita (1642). Nel 1644 esegui il suo esperimento barometrico, e lo descrisse in una lettera, divenuta molto nota, al discepolo Michelangelo Ricci(11).
   Il programma di Torricelli prevedeva non solo la produzione del vuoto, ma anche la costruzione di uno strumento con cui osservare le variazioni dell’aria «ora più grave e grossa ed ora più leggera e sottile››: un barometro. Torricelli poneva la questione del vuoto in questo modo: «Molti hanno detto che il vuoto non si dia, altri che si dia, ma con ripugnanza della natura; non so già che alcuno abbia detto che si dia senza fatica, e senza resistenza della natura». Torricelli intendeva eliminare il ricorso alla ripugnanza del vuoto, e la sostituì con una causa esterna ai fenomeni in cui si supponeva agisse l’horror vacui. Questa causa era il peso dell’aria, da cui deriva il concetto di pressione atmosferica. Nella lettera a Ricci il fisico scriveva: «Noi viviamo sommersi nel fondo d’un pelago di aria elementare, la quale, per esperienza indubitata, si sa che pesa, e tanto, e questa grossissima vicino alla superficie terrena pesa circa la quattrocentesima parte del peso dell’acqua (1: 400 e il valore accreditato da Galileo nei Discorsi, che Torricelli assume). L’esperienza richiede mercurio puro, senza bolle d’aria, e una certa destrezza: in fig. 4 A indica un vaso di vetro, grosso e lungo circa due braccia (120 cm). Lo si riempie di mercurio, se ne chiude la bocca con un dito, e si rovescia in una catinella dove è stato messo altro mercurio. Il vaso comincia a vuotarsi, e dopo qualche librazione si stabilizza all’altezza di «un braccio, un quarto e un dito in più(12)››.
 
  Per mostrare che nello spazio AE è stato fatto il vuoto, si versa dell’acqua nella catinella, e poi si estrae gradualmente il vaso. Quando la sua bocca arriva all’acqua il mercurio scende rapidamente, mentre l’acqua si inoltra nel vaso fino alla sommità E, riempiendolo tutto.
   Torricelli postulava che una regione di spazio svuotata di tutta la materia comune e dei gas, si potesse considerare vuota. Il fatto più importante sta nel mercurio che si sostiene nel collo AD, nonostante il suo forte peso, e nello svuotamento dello spazio AE. Il fisico faentino negò che la forza che sostiene il mercurio potesse derivare dalla ripugnanza del vuoto e che sostanze aeree, sottilissime, potessero attrarre la colonna di mercurio. «Io pretendo – dichiarò Torricelli – che la forza sia esterna al vaso e venga di fuori: …sulla superficie del liquore che è nella catinella gravita l’altezza di cinquanta miglia d’aria››. Perciò non c’è da meravigliarsi se nel vaso CE in cui non c’è nulla entri il mercurio e s’innalzi tanto da equilibrare la gravità dell’aria esterna che lo spinge. In un vaso simile, ma molto più lungo, l’acqua salirà fino a 18 braccia, tanto più in alto del mercurio, quanto il peso specifico del mercurio è maggiore di quello dell’acqua.  Le colonne di acqua e mercurio, di lunghezza diseguale nella proporzione 1: 13,6 , hanno lo stesso peso, a parità di sezione, e possono equilibrare la pressione esterna che è la stessa per entrambe.               L’atmosfera, come unità di pressione, è nata per indicare il valore medio della pressione atmosferica al livello del mare; e per fissare le idee supponiamo che la pressione atmosferica abbia il valore di 1 atmosfera, per convenzione equivalente a una colonna di 760 mm di mercurio.
    Il peso specifico del mercurio rispetto all’acqua è 13,6. La colonna d’acqua che equilibra questa colonna di mercurio è data da:
      ho = 13,6 × 0,76 = 10,33 metri: sono circa 18 braccia.
   Il limite di aspirazione dell’acqua, che si raggiunge quando la pressione atmosferica eguaglia la pressione della colonna d’acqua sulla sua base, si aggira sulle 18 braccia, ma non e fisso: dipende dalla pressione atmosferica effettiva del luogo dove è istallata la pompa.
   Torricelli concluse la sua esposizione osservando di non essere riuscito nel suo intento principale, la realizzazione del barometro, perché inaspettatamente aveva trovato che il mercurio era molto sensibile al caldo e al freddo. Infatti un barometro di tipo torricelliano è inseparabile dal termometro che permette di tener conto della dilatazione termica del mercurio e della scala di lettura.
     Alla morte di Galileo, Torricelli prese il suo posto come matematico del granduca, ma rifiutò il titolo di filosofo, che forse riteneva pericoloso. Morì prematuramente cinque anni dopo il maestro, lasciando inediti che, se fossero stati conosciuti quando era in vita, avrebbero fatto di lui un leader della rivoluzione scientifica.
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(11) E. Torricelli, Lettera a Michelangelo Ricci dell’11 giugno 1644, in Le opere dei discepoli di Galileo, a cura di P. Galluzzi e M. Torrisi, Ed. Giunti Barbera ristampata  nel 1975, pp.123-25.
(12) Un braccio e un quarto sono 73 cm; ma quel che importa è la stabilità del mercurio. Il valore che si legge dipende, oltre che dalla pressione atmosferica, dal luogo e dalla temperatura.
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   Il barometro ad acqua di Gaspare Berti.
   Gaspare Berti faceva parte insieme con Torricelli della scuola galileiana di Roma diretta da padre Castelli. Era un eccellente sperimentatore: gli esperimenti di fig. 5 e 6 erano intesi a verificare il significato delle 18 braccia, e la natura del vuoto lasciata dall’acqua nei tubi barometrici.

    Il tubo AB di Fig. 5, lungo quasi 11 metri, veniva riempito con acqua insieme al serbatoio MN, evacuando l’aria; poi i rubinetti G, A, B venivano chiusi.
     Aprendo il rubinetto inferiore B, si osservava l’acqua scendere fino al livello L, distante da B circa 18 braccia; lo spazio superiore a L appariva vuoto. La fig. 6 permette di valutare le grandi dimensioni dell’apparato, richieste dall’uso dell’acqua, 13,6 volte più leggera del mercurio con cui Torricelli aveva semplificato notevolmente l’esperienza.
    Berti sistemò l’apparato davanti alla sua casa. La palla CD e il tubo barometrico AL venivano completamente riempiti, eliminando l’aria, dalla pompa posta sulla finestra più vicina alla palla, e collegata a questa da un tubo, munito di una valvola A di arresto del fluido, al termine del riempimento.
     Aprendo il rubinetto all’estremo inferiore del tubo, l’acqua scende fino al livello L alto circa 18 braccia sopra l’acqua del vaso a terra; lo spazio lasciato dall’acqua sopra L appariva vuoto. Gli esperimenti di Berti sono anteriori a quelli di Torricelli, e si sono avute dispute tra gli studiosi sulla priorità dell’invenzione.
     Si può dire che l’interpretazione fisica degli esperimenti completa è di Torricelli, che Torricelli progettò anche un barometro, ma Berti è stato veramente il primo a fare il vuoto.

    La controversia del vuoto.
    Padre Marino Mersenne. appassionato sperimentatore, era in contatto con gli studiosi di tutta Europa; avuta la lettera di Torricelli da Ricci provvide alla sua diffusione. Nei decenni che seguirono la scoperta del vuoto, gli esperimenti con il vuoto conobbero una grande fortuna.
Sono molto noti gli emisferi di Magdeburgo: nel 1654, Otto von Guericke, borgomastro di Magdeburgo, aveva costruito una pompa per vuoto, e vuotò due emisferi di un metro di diametro; due tiri a otto di cavalli di Pomerania non riuscirono a staccarli: eccellente dimostrazione della intensità della pressione atmosferica. Robert Boyle perfezionò la pompa di Guericke, e poté scoprire il legame tra pressione e volume di un gas, a temperatura costante.
   La controversia sul vuoto si accese immediatamente dopo la scoperta di Torricelli, ma né lui né la scuola galileiana parteciparono alla disputa. L’incriminazione romana della fisica di Galileo suggeriva che quando non c’è libertà di vita è opportuno astenersi anche dalle parole; conviene dissimulare, tanto più che i Gesuiti erano fortemente coinvolti nella questione e avevano messo in campo i loro migliori scienziati.
    A sostegno del vuoto emerse il pensiero di Pascal, che portò importanti contributi alla statica dei fluidi. Pascal aveva anche il gusto per le dimostrazioni spettacolari: fece portare un barometro sopra i mille metri del Puy de Dôme, in Alvernia, e controllando a valle la costanza delle condizioni atmosferiche scoprì nel barometro in quota una depressione di 8 cm. Agli accademici del Cimento fu sufficiente l’altezza delle torri fiorentine, per dare la stessa dimostrazione. La conseguenza pratica è che il barometro può essere usato come altimetro: misurando le pressioni atmosferiche in due località se ne può conoscere la differenza di quota.
   Una scoperta molto importante fu che la luce, a differenza del suono, si propaga nel vuoto. I gesuiti riempirono il vuoto torricelliano di sostanze eteree, e lo fece anche Huygens: la luce era per lui una propagazione di onde (1690); e nel vuoto assoluto sarebbe mancata l’entità che oscilla, il soggetto del verbo ‘ondulare’. Un etere era d’obbligo, e così fu anche per Fresnel, Maxwell e per la quasi totalità dei fisici. L’etere è stato dichiarato superfluo solo nel 1905, con il lavoro sulla relatività di Einstein, né i fisici si sono adeguati tutti e subito.
     La propagazione della luce in uno spazio completamente vuoto aveva per i gesuiti profonde implicazioni di teologia dogmatica, avendo avuto essi la brillante idea di mescolare la fisica di Aristotele con la teologia. Una luce capace di propagarsi nel vuoto, senza alcun supporto sostanziale, è un puro accidente. E i puri accidenti, separati dalla sostanza, non possono esistere, secondo Aristotele(13).
     Accidenti senza sostanza si hanno solo nel miracolo della transustanziazione eucaristica. Dopo la consacrazione le specie eucaristiche, il pane e il vino, appaiono identiche a come si sperimentano ordinariamente; in realtà, sono divenuti accidenti senza sostanza; la sostanza, miracolosamente, è il corpo e il sangue di Cristo.
    La luce per i gesuiti doveva necessariamente inerire a un soggetto, altrimenti il miracolo degli accidenti eucaristici, sussistenti senza la primitiva sostanza, non sarebbe più stato un miracolo, ma qualcosa di naturale, che si sarebbe potuto osservare nella propagazione della luce.
La commistione di fisica aristotelica e teologia dogmatica non ha reso un buon servizio al mistero religioso. È quello che Galileo ha scritto nella lettera a Madama Cristina di Lorena, granduchessa di Toscana, nel 1615.
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(13) Cfr. P. Rodondi, Galileo eretico, Einaudi, 1983, pp. 257-87.
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    Il vuoto non è vuoto.
    Aristotele pensava che una regione di spazio totalmente vuota non potesse esistere, e anche la fisica attuale sostiene un punto di vista simile.
    Si può pensare che immense distese vuote debbano esistere negli spazi profondi, intergalattici: in realtà questi spazi contengono radiazioni elettromagnetiche, e tale è la radiazione di fondo cosmica, residuo fossile del Big Bang; ma anche gli elusivi neutrini, le onde gravitazionali, la materia oscura, che non si osserva, ma deve esserci. Una regione svuotata di tutta la materia ordinaria, è tutt’altro che vuota; possiede una struttura complessa che non si può eliminare.
    Ma se il vuoto non è vuoto, perché lo chiamiamo cosi? In realtà, i fisici chiamano vuota una regione quando è stata svuotata di tutto ciò che può essere allontanato con i mezzi sperimentali. Il vuoto è il vuoto che si può produrre sperimentalmente, eliminando la materia visibile, solidi, liquidi, gas. Lo spazio è ancora pieno di radiazione elettromagnetica; in parte è radiazione termica, e può essere eliminata con il raffreddamento, ma anche se si potesse portare lo spazio allo zero assoluto, rimarrebbe la caotica radiazione di punto zero, caratteristica del vuoto, e ineliminabile.
     Questo dice la fisica classica; le teorie quantistiche dei campi che descrivono la fisica delle particelle elementari hanno reso il quadro più bizzarro descrivendo la creazione spontanea di materia e antimateria nel vuoto.
     I processi sub-nucleari hanno trovato una efficace rappresentazione nei diagrammi di Feynman. Mostriamo ora con un diagramma una tipica fluttuazione del vuoto, in cui avviene un’effimera creazione di particelle, e la successiva annichilazione.
    Le tre linee sul diagramma rappresentano le traiettorie nello spazio-tempo (x, t) di un protone p+ , di un antiprotone p, che si distingue dal protone per l’orientamento della sua traiettoria, nel senso del tempo opposto a quello usuale, dal futuro al passato; e di un mesone π, che è necessariamente neutro.
   Infatti la carica globale del terzetto era zero prima della creazione in A quando il terzetto non esisteva, e deve rimanere zero: la carica elettrica globale non si crea e non si distrugge. Le tre particelle (p+,  p, π) create in A, si annichilano dopo un tempuscolo in B, e il principio di conservazione dell’energia è violato due volte: nell’atto di creazione dal nulla in A, e nell’annichilazione in B. La natura permette questa violazione durante tempi brevissimi, tanto più brevi quanto più l’indeterminazione dell’energia, associata alla sua violazione è grande.
   Le particelle del diagramma sono particelle virtuali, non osservabili, ma necessarie per spiegare l’interazione tra le particelle reali. Queste possono essere stabili, come è stabile l’elettrone. Il vuoto è allora uno spazio di sole particelle virtuali? La definizione non è possibile, perché il vuoto può essere instabile ed emettere particelle reali.
   In ogni caso, il vuoto appare pieno di caotica attività, in cui ad atti di creazione si alternano atti di annichilazione; esso contiene potenzialmente tutte le forme particellari. Il vuoto non è vuoto: secondo il sutra buddista: «la forma è vuoto, e il vuoto in realtà è forma››(14)

   Appendice: La determinazione del peso dell’aria.
 La conoscenza del peso dell’aria è indispensabile per costruire il concetto torricelliano di pressione atmosferica. E Galileo ne diede una prima, approssimata determinazione: trovò che, a parità di volume, l’acqua pesa 400 volte più dell’aria.
    L’Accademia del Cimento (1657-l667) era composta da eminenti galileisti come Viviani, Borelli, Redi, e aveva come motto «Provando e riprovando» in senso strettamente sperimentalistico: è il metodo empiristico delle prove ed errori. Tra i molti esperimenti eseguiti con una raffinata strumentazione, si trova anche la determinazione del peso dell’aria, che conserva un notevole valore didattico e si può eseguire in un laboratorio scolastico. I fatti sono sempre carichi di teoria; qui tutta la teoria necessaria è il principio di Archimede: un corpo immerso in un fluido (aria, acqua) ha un peso apparente dato dalla differenza tra il suo peso assoluto e il peso del volume del fluido spostato, che chiameremo spinta (diretta verso l’alto). In fig. 8, B è una palla di piombo chiusa piena d’aria; F è un peso zavorra.
    In aria, si trova che tutto il composto pesa 31126 g (i dati sono degli accademici). Tuffato nell’acqua, con l’aiuto della zavorra, pesa 4672 g perché la spinta è:
31126 – 4672 = 26944 g.
    Quando la palla viene compressa e schiacciata, diminuisce di volume (L, in figura 8); e diminuisce non solo la spinta dell’acqua ma anche quella dell’aria in cui è immersa.
    Si trova che il peso in aria è ora 31219 g, con una diminuzione di 7 g. La diminuzione della spinta è di 26944 g (palla integra) – 18691 (palla ammaccata) = 8253. Questa è la spinta dell’acqua sul volume mancante della palla, ed è eguale al peso di un volume di acqua pari al volume sottratto.
        Il peso specifico dell’aria rispetto all’acqua è dunque: 718253 = 1: 1179, un risultato che non è più preciso di quello di Galileo (1/400) perché il valore corretto è 1:773. Gli accademici ripeterono molte volte la misura, con risultati assai diversi. L’istruttivo commento fu: «un errore di due o trecento grammi è tutto quello che si può pretendere, quando si paragona una cosa che non muta mai di peso (la palla integra) con un’altra che non è mai la medesima (ammaccamento casuale).
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 (14) F. Capra, Il Tao della fisica, Adelphi, 1999, p.249.
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   Ringraziamenti.
  Desidero ringraziare la dott.ssa Natalia Tizi, della  Biblioteca Comunale di Fermo, per avermi concesso la riproduzione della xilografia della fig. 2 da una ristampa del De re metallica di Agricola.

 

 

 

Breve racconto estivo sui ghiacci del polo nord

 

BREVE RACCONTO ESTIVO SUI GHIACCI DEL POLO NORD

 di Fabio Panfili

Giugno 2000

Un giorno di fine maggio del 1998, la collega Maria Clotilde mi chiese: “Perché i ghiacci che stanno al polo nord, pur non essendo ancorati alla ‘terraferma’, restano al polo nord?”.
 Questa domanda le era stata rivolta dal figlio adolescente Michele.
Non ricordo niente del genere in tanti anni di vita scolastica e, contrariamente al mio modo di fare, non ho dato una risposta immediata; piuttosto ho indicato un esperimento i cui risultati sono da interpretare con molta prudenza.
Occorrono: un secchio con manico, una corda, dell’acqua e qualche cubetto di ghiaccio. Si versa l’acqua fino a metà del secchio, si pongono a galleggiare sei, sette cubetti di ghiaccio, si lega la corda al centro del manico e si tiene tutto sospeso con una mano, mentre con l’altra si fa girare rapidamente il secchio su se stesso.
Meraviglia delle meraviglie, i cubetti di ghiaccio vorticando si dirigono verso il centro, mentre la superficie dell’acqua assume una forma da osservare con attenzione: a regime è simile ad un paraboloide.
Bisogna però chiedersi se il secchio ruotante somiglia alla terra che gira su se stessa e se fenomeni analoghi accadono ai ghiacci che galleggiano al polo nord.
Perché si sa che, quando gli iceberg si distaccano dalla banchisa, essi si spostano verso mari più caldi.
So bene per altro che, durante la preparazione di un buon tè, se lo mescolo nella tazza con un cucchiaino, le foglioline vorticando si dirigono verso il centro; eppure queste normalmente non galleggiano, quando sono bagnate. Ho osservato, anche se distrattamente, che il vortice generato nel liquido ambrato fa assumere alla superficie una forma diversa che nell’esperimento col secchio.
Le velocità osservate dal centro alla periferia hanno nei due casi un andamento molto diverso: col secchio ruotante esse crescono proporzionalmente al crescere del raggio; nel vortice creato col cucchiaino invece, le velocità sono maggiori al centro e scemano andando verso la periferia, almeno mentre si gira il cucchiaino.
Al polo nord non c’è alcun cucchiaio gigantesco che faccia girare il tutto, ma sono gli oceani, i fondali marini e il resto a compiere un lungo giro giornaliero.
Ciò somiglia di più al secchio ruotante.
Tuttavia, per rispondere alla domanda iniziale, dovrei poter fermare la Terra e osservare il comportamento dei ghiacci al polo nord.
Dunque una tazza che ruota trascina il liquido contenuto in un gorgo diverso da quello ottenuto col cucchiaino… ma allora se io faccio girare la tazza, dove finiscono le foglioline di tè? Ai bordi naturalmente, come le cose che non galleggiano.
Un buon libro di fisica a volte aiuta a riflettere. In un pomeriggio di un caldo giugno inoltrato, leggo pagine che parlano di acqua asciutta e bagnata e mi perdo dietro a formule e pensieri.
A volte fa bene allo spirito parlare con un amico, poiché lentamente le cose si fanno più chiare.
Nel secchio che gira su se stesso a velocità angolare costante, trascinando l’acqua in un moto a regime, immagino una particella di acqua di forma cubica, immersa nell’acqua che ruota.
 Mi chiedo, osservandola da un sistema di riferimento solidale col secchio (cioè che ruota concentrico al secchio e con la stessa velocità angolare), perché la particella è in equilibrio.

La forza centripeta che agisce su di essa, è dovuta alla differenza di pressione tra le due facce normali al raggio, mentre la forza centrifuga (che appare in questo particolare sistema di riferimento, detto non inerziale) è proporzionale alla sua massa.
Ora sostituisco idealmente la particella d’acqua con un cubetto dello stesso volume, ma di materiale meno denso.
Mentre la forza centripeta resta invariata, perché è dovuta all’acqua in moto che circonda la nuova particella, la forza centrifuga è diminuita in ragione della diminuzione della massa.
L’oggetto allora non è più in equilibrio e viene trascinato verso il centro di rotazione. Sorte opposta avrebbe un cubetto di materiale più denso, che andrebbe verso il bordo.
Il tutto accade poiché la pressione aumenta dal centro alla periferia con il quadrato del raggio, quindi la faccia più lontana dal centro è sottoposta ad una pressione maggiore di quella più vicina al centro, generando così la forza centripeta, il cui valore dipende dall’acqua e non dall’oggetto interposto.
A questo punto non indago su correnti marine o venti dalle parti del polo nord, poiché non ritengo che siano essenziali nell’indagine.
Mi piace pensare che i cubetti di ghiaccio nel secchio ruotante, siano spinti verso il centro da un qualcosa che richiama la forza di Archimede.
Bisogna inoltre chiedersi se il galleggiare dei cubetti di ghiaccio somiglia al galleggiare dei ghiacci del polo nord. Non mi riferisco alla salinità dei mari, voglio dire piuttosto che occorre prudenza nel supporre che le nostre osservazioni valgano inalterate su una scala più ampia. Alcuni particolari che in questo contesto riteniamo non significativi, potrebbero diventarlo inaspettatamente per grandi dimensioni.
Potrei concludere qui il racconto, ma voglio suggerire un esperimento più rilassante che può riguardare ancora i ghiacci del polo nord.
Si versa dunque dell’acqua in un bicchiere e vi si aggiungono alcuni cubetti di ghiaccio, si segna con un fine pennarello sul vetro il livello del liquido. Ora bisogna aspettare che il ghiaccio si sciolga.
Cosa è successo al livello dell’acqua? È cambiato? No, è rimasto lo stesso.
La parte di ghiaccio immersa occupa un volume di acqua liquida il cui peso è pari al peso di tutto il ghiaccio. Ma questo è acqua solida, meno densa di quella liquida; ciò causa che una piccola parte del ghiaccio emerge. Quando esso si scioglie, il suo volume diminuisce proprio di quella parte, quindi occupa, come acqua liquida, quel volume che prima era immerso.
Nell’esperimento qualitativo si sono trascurate le variazioni di temperatura del miscuglio durante la prova.
Si può obiettare che i mari sono salati. Un blocco di ghiaccio di acqua dolce che galleggia su un mare salato, presenta una parte emersa maggiore di quella che avrebbe se galleggiasse su un mare di acqua dolce. Di conseguenza questo blocco sciogliendosi farebbe aumentare il livello del mare.
Si è letto, o si è sentito dire, che se si sciogliessero i ghiacci del polo nord, per effetto di un eventuale aumento della temperatura media della Terra, i livelli dei mari salirebbero. Una possibile spiegazione, data sempre con le opportune cautele, si può attribuire ad una diversa salinità tra i ghiacci e i mari su cui galleggiano. O piuttosto al fatto che l’acqua dovuta allo scioglimento è inizialmente fredda e poi, dirigendosi verso latitudini più calde,  aumenta di temperatura e di conseguenza  il suo volume aumenta.
Ben diverso è il caso dei ghiacciai della Groenlandia o dell’Antartide che stanno sulla terraferma. È ovvio che, quando parti di questi si sciolgono, grandi masse di acqua liquida si riversano nei mari.
Si può ottenere del ghiaccio salato versando acqua e sale in un bicchiere di plastica e mettendo il tutto nel congelatore. Dopo qualche ora si otterrà un blocchetto di ghiaccio, ricoperto di una patina di sale. Se si mette il blocchetto così ottenuto in acqua dolce, cioè nella condizione più sfavorevole, si nota che esso galleggia appena. Se si è ecceduto nella quantità di sale disciolto nella preparazione, il blocchetto affonda.
Si può osservare il galleggiamento di ghiaccio salato in acqua salata, purché la percentuale di sale nell’acqua liquida sia maggiore di quella nel ghiaccio.
Alcuni degli esperimenti descritti hanno coinvolto mio figlio Alessandro di nove anni.
La sua curiosità e quella di Michele sono il sale che da sapore alla conoscenza.

 

Ringrazio Settimio Virgili per i suggerimenti, e l’amico con cui ho scambiato buone considerazioni.

P.S.  Per pura curiosità  si vedano i due dispositivi ai seguenti indirizzi:

https://www.istitutomontani.edu.it/museovirtuale/macchina_centrifuga127/

https://www.istitutomontani.edu.it/museovirtuale/vaso_di267/

 

Un coherer attribuito a Temistocle Calzecchi Onesti

Un coherer forse realizzato da T. Calzecchi Onesti
di Fabio Panfili           Gennaio 2025

Questo coherer è conservato presso il Liceo Classico Pilo Albertelli di Roma e sembra sia stato realizzato  da Temistocle Calzecchi Onesti durante la sua permanenza in  quella Scuola.
Il Liceo fu fondato nel 1879 e nel 1881 fu denominato Umberto I, nome che conservò fino alla nascita della Repubblica Italiana.
Da un documento rinvenuto e fotografato dal prof. Stefano Gianoglio, su indicazione della prof.ssa Federica Favino, si evince che T.C.O. insegnava in quella Scuola nel 1911.

Qui sotto riportiamo  un particolare di una pagella dove appare sulla sinistra in basso la firma di T.C.O. .
Come si può leggere in questo sito nell’articolo: «Temistocle Calzecchi Onesti, il coherer e un convegno del 1985», T.C.O. insegnò dapprima  all’Aquila, poi a Fermo al Liceo A. Caro dove scoprì il coherer, poi a Milano, dove insegnava il suo amico d’infanzia prof. Oreste Murani, e infine a Roma, prima di tornare a Monterubbiano.
Le due foto sotto mostrano altri particolari del coherer.
Il sig. Vincenzo Panetta, la prof.ssa Astrik Gorghinian e il sig. Leopoldo Della Corte del Liceo P. Albertelli hanno eseguito una prova di funzionamento risultata positiva e hanno realizzato un video della prova.
Li ringrazio.
Ringrazio il prof. Stefano Gianoglio per le preziose indicazioni e la foto della pagella; ringrazio la prof.ssa Federica Favino, che ha suggerito a Gianoglio dove fare le ricerche, e il sig. Vincenzo Panetta per le foto del coherer.

Per ingrandire le immagini cliccare su di esse col tasto destro del mouse e scegliere tra le opzioni.
È interessante leggere la  storia del Liceo:
https://piloalbertelli.it/la-scuola/la-storia/

 

 

 

 

 

Anello saltatore (Jumping Ring)

ANELLO SALTATORE (Jumping Ring) CONSIDERAZIONI TEORICHE E RILIEVI SPERIMENTALI

di Lorenzo Cognigni
30 gennaio 2024

SINTESI
L’esperimento dell’anello saltatore (eseguito per la prima volta da Elihu Thomson nel 1887 e successivamente esteso con la levitazione da John A. Fleming nel 1890) è la più evidente dimostrazione applicativa della legge dell’induzione elettromagnetica: un anello conduttore, di diametro leggermente più grande del nucleo,  viene posto a circondare il nucleo ferromagnetico di una bobina (vedere nella foto sotto), ad una certa distanza dalla sua base  e fatto saltare e/o levitare al passaggio di corrente alternata nella bobina avvolta intorno al nucleo.
DESCRIZIONE DELL’APPARATO SPERIMENTALE
La prima foto mostra l’apparato sperimentale utilizzato e presentato  da chi scrive in occasione del Tombolone scientifico” all’ITT Montani di Fermo.
Il Tombolone scientifico è un insieme di giochi scientifici costituiti da 90 esperimenti interattivi organizzati nei vari plessi dell’Istituto. I partecipanti ricevono una cartella con 5 numeri corrispondenti a 5 esperimenti e, sotto la guida di uno staff di studenti e docenti del Montani, ognuno  di essi arriverà a fare “Tombolone”  svolgendo e/o assistendo alle esperienze assegnate; tutti riceveranno un premio inerente alla curiosità scientifica e tecnica.
Esso è diventato una tradizione che dura da più di 17 anni e che vede una larga partecipazione di pubblico.
L’apparecchio è costituito da un solenoide di 850 spire realizzato da chi scrive con le attrezzature della scuola con filo smaltato di rame di 2,1 mm di diametro avvolto su un supporto tubolare in plastica all’interno del quale è stato inserito un nucleo ferromagnetico costituito da fili di ferro dolce. Il circuito magnetico sporge verso l’alto dal solenoide per circa 45 cm. Le dimensioni geometriche dell’apparato sono riportate in figura 1; esso è alimentato alla tensione di rete a 230 V.
Figura 1 – Dispositivo di prova (nucleo in ferro)

Al posto dei tipici anelli sono stati utilizzati  cilindretti cavi di alluminio di varia altezza il cui diametro interno è leggermente più grande del diametro del nucleo ferromagnetico e presentano un minore attrito con l’aria durante la fase di espulsione  rispetto agli anelli tradizionali. Le numerose misure condotte in laboratorio hanno consentito di determinare tutti i parametri elettrici del modello circuitale della bobina.
Allo scopo è stato utilizzato lo strumento da tavolo “MeetBOX-25P+6” di IRS didattica che contiene al suo interno schede di acquisizione National Instruments: cDAQ NI 9202, cRIO NI 9411, NI 9210.
In pratica lo strumento può essere impiegato per la trasduzione di segnali elettrici monofase, trifase e per l’acquisizione di altri segnali analogici tramite software LabVIEW. Può inoltre gestire gli I/O digitali messi a disposizione sistema DAQ.
La serie di misure ha consentito di rilevare la tensione di alimentazione, la corrente assorbita e lo sfasamento tra esse.
La corrente assorbita dalla bobina è fortemente deformata rispetto all’andamento sinusoidale della tensione impressa. Ciò è ovviamente dovuto alla non linearità introdotta dal ferro del circuito magnetico. La figura 2 mostra la schermata di acquisizione relativa al cilindretto cavo di altezza 25 mm.
Figura 2 – Schermata elaborazione dati acquisiti con MeetBOX.

I calcoli, effettuati con la sola corrente fondamentale, avente stessa fase e valore efficace di quella reale, hanno fornito i seguenti risultati: le correnti assorbite, primaria I1 (nella bobina) e secondaria I2 (nel tubolare), presentano, nel campo di variazione delle altezze del cilindretto cavo (da 5 mm a 65 mm), un massimo in prossimità del valore h = 25 mm (figura 3).
Figura 3 – Andamento delle correnti nella bobina (I1) e nel cilindretto cavo (I2).

Anche l’andamento della potenza assorbita P (e quella dissipata per effetto Joule ΔP) mostra un massimo in corrispondenza dell’altezza h = 25 mm (figura 4).Figura 4 – Potenza assorbita dalla bobina e potenza dissipata nel cilindretto cavo.

L’andamento crescente di I2 con h non porta ad un aumento dell’altezza di lancio. Probabilmente per via dell’aumento di peso del tubo e degli effetti di saturazione.
Per migliorare le prestazioni dello “sparo” è stata effettuata anche una prova di lancio collegando in serie al circuito un condensatore di capacità 200 μF (condizione di risonanza con tubo h = 25 mm):
Il salto è aumentato di circa 50 cm, ma non in modo sorprendente come ci si aspettava (forse per la saturazione del circuito magnetico).
Il Prof. Guido Pegna in un suo articolo [1] fra l’altro ha riportato fondamentali correzioni alle spiegazioni che si trovano in letteratura sul funzionamento dell’apparato di Thomson.
 Il 15 gennaio del 2024 Fabio Panfili, che nutre alcune perplessità dovute a lacune nelle spiegazioni teoriche del funzionamento dell’apparecchio di E. Thomson, ha suggerito a chi scrive di mettere l’apparato in orizzontale e di porre dapprima un anello conduttore tra la base e la metà della bobina per vederne il comportamento in seguito al passaggio della corrente nella bobina (caso a).
Successivamente si mette l’anello tra la metà della bobina e la parte più lontana dalla base e si fa passare la corrente (caso b).
Figura 5 – Un esperimento inusuale

Il giorno 16 /01/2024 chi scrive ha realizzato un anello di filo di rame di diametro più grande della bobina ed ha eseguito  l’inusuale esperimento.
Con non poca meraviglia si è visto che nel primo caso l’anello va verso la base, mentre nel secondo caso l’anello si allontana dalla base.
Questo fenomeno pone un problema di non immediata soluzione sulle cause di questo comportamento.
Inoltre, in linea esclusivamente teorica, se l’anello  si trovasse esattamente nel mezzo della bobina dovrebbe restare in equilibrio. In pratica questa condizione è ovviamente irrealizzabile.
 Successivamente l’apparecchio è stato messo in verticale e, a parte l’effetto del peso dell’anello di rame,  il comportamento era identico.Nelle due  figure tratte da Catalogue des Appareils pour l’Enseignement de la Physique construits par E. Leybold’s Nachfolger Cologne, 1905;  rinvenibile all’indirizzo:
http://cnum.cnam.fr/PDF/cnum_M9915_1.pdf  si vede un antico apparecchio di Elihu Thomson. La fig. 8576 mostra che, se si tiene una spira ferma che circonda il nucleo, in essa si induce una  corrente che accende una lampadina.
Nelle foto in fondo al testo si vedono due esemplari di apparecchi di Thomson che fanno parte della collezione del  Montani.

DESCRIZIONE DELLA SECONDA SERIE DI ESPERIMENTI – BOBINA IN ARIA (CANNONE ELETTROMAGNETICO)

Una seconda serie di esperimenti è stata condotta con una bobina di poche spire (25 di diametro) di forma piatta senza ferro ed un anello di alluminio. L’esperimento originale , ideato dal Prof. Pegna [4], prevedeva l’alimentazione della bobina con una corrente impulsiva fornita dalla scarica di un condensatore (2200 μF, 385 V) precedentemente caricato alla tensione di rete:  figura 7 e figura 8 dell’articolo [1] citato in bibliografia.Figura 7 – Il cannone elettromagnetico. Il disco è fotografato spostato per mettere in evidenza la bobina. Il condensatore è il grosso cilindro nero sulla destra, mentre il teleruttore e in primo piano.Figura 8 –  Schema del Cannone Elettromagnetico.  T è un teleruttore con i quattro contatti t1 – t4 in parallelo. C.I. è un diodo LED che indica il livello di carica del condensatore. REMOTE CONTROL è il telecomando, opportuno  per motivi di sicurezza.

In un primo momento si è realizzata e provata la soluzione proposta dal Prof. Guido Pegna ottenendo ottimi risultati: “l’anello” veniva sparato verso l’alto e batteva contro il soffitto, a circa 4 m di altezza (aula laboratorio della scuola).
Per questo motivo il Prof. Pegna lo ha battezzato cannone elettromagnetico.
Successivamente si è pensato che fosse possibile migliorare le prestazioni del dispositivo collegando due condensatori in serie per aumentare la tensione di alimentazione della bobina e, quindi, la corrente circolante nella stessa.
Si è così realizzato un circuito in grado di caricare due condensatori connessi prima in parallelo e, successivamente  con una connessione automatica in serie, provvedere all’alimentazione della bobina.
La figura 6 mostra lo schema circuitale con l’aggiunta di alcuni LED per segnalare il livello di carica dei condensatori.
Il circuito è stato realizzato e collaudato in un primo momento inserendo i condensatori in una scatola di legno sul cui coperchio posticcio era incollata la bobina di lancio. Il primo “tiro” ha prodotto la fusione e la saldatura reciproca dei contatti del teleruttore e lo sfondamento del coperchio di legno lasciando intuire le potenzialità della soluzione.
Ricostruita la scatola contenitore in modo più robusto e sostituito il contattore con uno di maggior corrente nominale si sono ottenuti risultati sorprendenti: l’altezza dello “sparo” (anche nel significato acustico della parola), misurata all’esterno di un edificio con metro laser puntato verso il cornicione del tetto, ha superato i 15 m !
Ovviamente si potrebbe procedere caricando più condensatori e/o realizzando connessioni serie-parallelo per aumentare anche la carica posta in gioco.Figura 6 – Schema circuitale della variante del “cannone elettromagnetico.

Per ingrandire le immagini cliccare su di esse col tasto destro del mouse e scegliere tra le opzioni.

 Bibliografia.
[1] Guido Pegna – L’anello saltatore e nuove storie – La Fisica  Nella Scuola-  Anno XLVI -n.1 – gennaio/marzo 2013.
J. Taweepong, K. Thamahpat, S. Limsuwan – Jumping ring experiment: effect of temperature, non-magnetic         material and applied current on the jump height – I-SEEC2011 Physics Procedia · December 2012.
Paul J. H. Tjossem, Victor Cornejo – Measurements and mechanisms of Thomson’s jumping ring – American         Association of Physics Teachers – Am. J. Phys. 68 ~3!, March 2000.
Paul J. H. Tjossem and Elizabeth C. Brost – Optimizing Thomson’s jumping ring – American Association of Physics  Teachers – Am. J. Phys. 79 14″, April 2011.
Celso L. Ladera, Guillermo Donoso – Unveiling the physics of the Thomson jumping ring – Departamento de Física,        Universidad Simón Bolívar – Caracas 1086, Venezuela – PACS Nos. 41.20.Gz, 85.70.Rp, 41.20.-q, 01.50.Pa, 01.50.My.
Battistini – Elettrotecnica generale – Vol. I e II – Colombo Cursi – Pisa.
A.E. Fitzgerald – C. Kingsley – Jr. A. Kusko – Macchine elettriche – Franco Angeli.

Ringrazio Fabio Panfili per la  preziosa e indispensabile collaborazione e per avermi segnalato nel 2013  l’articolo di Guido Pegna: articolo che mi ha incuriosito a tal punto da costruire sia il “cannone elettromagnetico” con le varianti descritte, sia il tradizionale apparato di Thomson qui esposti.
 Ringrazio inoltre  Rocco Congiusti per la competente e assidua  assistenza durante le misure e le prove sperimentali.

I due apparecchi della collezione del Montani.

 

 

Dalla collezione di Angelo e poi Giuseppe Mandolesi. Alcune pagine di appunti sulle macchine utensili.

Dalla collezione di Angelo e poi Giuseppe Mandolesi.
Alcune pagine di appunti sulle macchine utensili.

di Fabio Panfili

Giuseppe Mandolesi, venuto a mancare nel Marzo del 2023, aveva conservato con molta cura i quaderni, altro materiale scolastico e le cartoline che suo padre Angelo gli aveva lasciato.
I quaderni erano stati usati dal padre Angelo durante la  frequenza  dell’allora Regio Istituto Industriale Nazionale, dall’anno scolastico 1924 /1925 fino all’anno scolastico 1928 /1929.
Così come le numerose cartoline, acquistate nello spesso periodo, riportano le foto dell’Istituto eseguite dallo Studio Seganti nei primi del Novecento.
Esse sono visibili alla voce: Immagini Storiche.
Le ho preferite a quelle conservate nella Biblioteca del Montani, poiché sono molto più nitide.
I direttori dell’epoca erano: dal 1923 al 1928 Plinio Luraschi e dal 1929 al 1937 l’ing. Mario Stella (1), come si vede nel certificato rilasciato nel 1931.
Angelo Mandolesi divenne poi disegnatore in una sede distaccata della FIAT.
 Nel 2015 Giuseppe, dopo aver visitato questo Museo Virtuale, mi aveva contattato per inviarmi le immagini digitali delle cartoline e di alcune copertine di quaderni in suo possesso perché riteneva, a ragione, che potessero interessare i visitatori del sito.
Il suo desiderio era di condividere la memoria del periodo nel quale il padre Angelo era studente dell’Istituto e convittore.
Era evidente nelle sue parole con quale intensità suo padre gli avesse trasmesso i ricordi della permanenza a Fermo.
Già da qualche tempo avevo l’intenzione di presentare alcune pagine di appunti di Meccanica, scritte da Angelo, ma volevo corredarle con un documento della sua promozione finale, conseguita con ottimi voti.
Laura, la consorte di Giuseppe, mi ha dato l’assenso a questa pubblicazione.
La ringrazio.
Quando Giuseppe mi spedì le immagini, pensai di fargli cosa gradita nel rintracciare i documenti che riguardavano il padre Angelo.
 Per mia fortuna c’è un attento conoscitore dell’archivio didattico storico; archivio che si trova nel piano terra in corrispondenza dell’ingresso del Triennio e a cui si accede con una porta che dà sul cortile alberato a ovest del Triennio.
Gaetano Marini mi condusse nel labirinto degli scaffali dell’archivio colmi di numerosissime schede.
Nel brogliaccio dell’archivio non c’era corrispondenza tra il nome e il numero del faldone; Gaetano si mise all’opera e riuscì ugualmente a trovare tutto il materiale documentale.
L’esperto Massimo Ciccola realizzò le copie digitali che subito spedii.

Alcuni documenti, risalenti al 1924, sono bruciacchiati ai bordi, quasi certamente in seguito all’incendio del 1928 (1).
In altre occasioni Gaetano trovò con facilità antichi documenti didattici, richiesti in copia digitale da altri che avevano collaborato in qualche modo alla realizzazione del Museo Virtuale.
Lo ringrazio  per la sua cortesia e disponibilità.
Nel Triennio esistono altri piccoli archivi che pochi conoscono.
Qui riporto un certificato degli esami di licenza e di abilitazione avvenuti alla fine del V° anno scolastico (1928/1929), un documento dai bordi bruciati necessario per l’iscrizione al 1° anno (1924/1925) e alcune pagine del quaderno.
Un sentito ringaziamento va alla famiglia Mandolesi.

Nota (1): Settimio Virgili, Il Montani, Storia dell’Istituto Tecnico Industriale di Fermo, 2005, da pag. 109 a pag. 136.


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