Si è ritenuto opportuno riportare un articolo apparso sulla rivista il Montani, N° 3-4, dicembre 2000, in memoria di Mario Guidone.
Articolo il cui contenuto è legato ad alcuni strumenti presentati in questo sito.
Mario Guidone, fisico teorico con vasta e profonda cultura, ha insegnato per più di trenta anni al Montani. Fra le sue molteplici attività, ha ideato e realizzato due importanti convegni: il primo nel 1985 su Temistocle Calzecchi Onesti ed il secondo nel 1999 su Roberto Clemens Galletti de Cadilhac, sul quale ha scritto un libro.
Inoltre ha scritto numerosissimi articoli divulgativi; in particolare per la rivista Il Montani. In molti di questi articoli riusciva elegantemente a collegare la scienza con Dante Alighieri, con Freud, con Piero della Francesca, ecc. .
ESISTE Il VUOTO?
Mario Guidone
Esiste dunque uno spazio impalpabile, vuoto. Se non vi fosse le cose non si potrebbero muovere.
(Lucrezio, De rerum natura, II, 334-36)
Nella rivoluzione scientifica del XVII secolo sono apparsi molti strumenti di osservazione e di misura, non solo in fisica, ma anche in biologia e in medicina(1). La scoperta del vuoto barometrico di Gaspare Berti ed Evangelista Torricelli, discepoli galileiani, ha avuto lo stesso valore dirompente della scoperta del cannocchiale. Da allora i miglioramenti nelle tecniche di produzione del vuoto hanno proceduto di pari passo con i progressi della fisica, della chimica, dell’ingegneria. Ci limiteremo a citare quel particolare tubo a vuoto, il tubo catodico, che ha permesso la scoperta dell’elettrone [J. J. Thomson, 1897] e oggi è in tutti gli apparecchi televisivi {nell’anno 2000, N. d. F.P.}. Una scienza del vuoto altamente progredita sostiene pure la rivoluzione microelettronica, che tanto incide sul nostro modo di vivere; e la fisica di punta, scopre negli ambienti estremamente rarefatti dei grandi acceleratori di particelle, strati sempre più profondi della materia.
Berti e Torricelli introdussero il vuoto nella fisica. Nei duemila anni precedenti l’esistenza o la non esistenza di spazi vuoti era stato l’argomento di pertinenza esclusiva dei filosofi.
Per i filosofi atomisti della Jonia, come Leucippo e Democrito, l’esistenza del vuoto era indispensabile.
Perché gli atomi possano muoversi è necessario uno spazio vuoto di materia e, indipendente da questa, una specie di scatola contenitrice entro cui gli atomi possano spostarsi da un luogo all’altro. Questo contenitore si può espandere indipendentemente, e assumere un’estensione illimitata, in cui è contenuto ogni atomo. Perché un atomo fuori del contenitore non ha senso. Newton era atomista, e perciò come Democrito ha postulato uno spazio-contenitore.
Aristotele ha cercato invece di dimostrare, da ogni punto di vista, che uno spazio vuoto non esiste. Fra le molte dimostrazioni che si trovano nella sua Fisica, ne abbiamo scelta una che è interessante, perché fa vedere cosa può succedere quando la premessa di una argomentazione è falsa. La legge di caduta dei gravi, nella forma stabilita da Aristotele, e aspramente criticata da Galileo, vuole che la velocità di caduta dei gravi sia proporzionale al loro peso. Ne segue che le rispettive velocità di due gravi stanno fra loro nello stesso rapporto dei pesi; se i pesi sono diseguali, sono diseguali le velocità, e tutto questo deve valere anche nel vuoto fisico. Ma il vuoto non definisce luoghi o direzioni speciali, non comporta alcuna differenziazione, neppure della velocità nel vuoto, per la sua natura, tutti i corpi devono cadere con la stessa velocità(*). Questa è proprio la legge sostenuta da Galileo, e valida anche oggi. Aristotele la respinge, perché contraddice la sua premessa, e perciò respinge l’esistenza del vuoto, causa della contraddizione.
Aristotele è il padre della logica, e formalmente la sua dimostrazione è corretta. Ma la premessa è fisicamente falsa; e, come si vede, ne deriva una conseguenza vera: da una premessa falsa si può dedurre qualsiasi cosa, anche una proposizione vera(2).
Occorre però dire che la posizione di Aristotele era coerente: lo spazio per lui era il volume occupato dalla materia continua, senza buchi né vuoti. L’esistenza di uno spazio vuoto, che non contenga niente ma che potrebbe contenere qualcosa, significa semplicemente che il vuoto non esiste.
Per la teoria della gravitazione einsteiniana, e per le attuali teorie dei campi quantistici, non è possibile distinguere la materia dal vuoto, come hanno potuto fare Democrito e Newton; riguardo al vuoto la fisica contemporanea ha una posizione simile a quella di Aristotele.
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(*) Nota di Fabio Panfili. Nel libro Discorsi e Dimostrazioni Matematiche intorno a due nuove scienze attinenti alla Meccanica e i movimenti locali Galileo scrive: “Quando dunque osservo una pietra che discende dall’alto a partire dalla quiete, acquista via via nuovi incrementi di velocità, perché non dovrei credere che tali aumenti avvengano secondo la più semplice e più ovvia proporzione? Ora, se consideriamo attentamente la cosa, non troveremo nessun aumento o incremento più semplice di quello che aumenta sempre nel medesimo modo. Il che facilmente intenderemo considerando la stretta connessione tra tempo e moto: come infatti la equabilità e uniformità del moto si concepisce sulla base dell’eguaglianza dei tempi e degli spazi (infatti chiamiamo equabile il moto allorché in tempi uguali vengono percorsi spazi uguali), così, mediante una medesima suddivisione uniforma del tempo, possiamo concepire che gli incrementi di velocità avvengano con [altrettanta] semplicità …” Quanto detto nel testo si deve dunque intendere nel senso che: “tutti i corpi devono cadere con la stessa accelerazione”.
Galileo cercava di dimostrare che due corpi di diversa massa, cadendo dalla stessa altezza, impiegano lo stesso tempo a giungere a terra. E confutò il ragionamento di Aristotele che attribuiva le velocità dei corpi in caduta proporzionali alla loro massa, con la supposizione che, durante la caduta, due corpi di massa diversa si unissero dando luogo ad un unico corpo di massa maggiore, che avrebbe avuto maggiore velocità di caduta di entrambi. Mentre, secondo Aristotele, il corpo più leggero avrebbe dovuto ritardare quello più pesante: da qui la evidente contraddizione insita nella teoria aristotelica.
(1) Questo si deve principalmente alla matematizzazione dei vari comparti della scienza. Descartes ridusse la biologia a fisica; il medico Santorre Santorio, collega di Galileo a Padova, introdusse metodi quantitativi in fisiologia, con il termometro clinico, il pulsilogio per la misura della pulsazione arteriosa, la bilancia per il controllo del metabolismo. Anche Harvey, lo scopritore del circolo sanguigno, dette ai suoi argomenti una veste quantitativa.
(2) La filosofia scolastica aveva la regola: «Ex absurdo sequitur quod libet», che vuol dire: «Da una cosa assurda si può dedurre ciò che si vuole».
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L’horror vacui.
Nel Trattato dell’equilibrio dei fluidi (1648) Pascal ha scritto che nel suo tempo esisteva un consenso unanime degli uomini e di tutti i filosofi sul principio che la natura preferirebbe essere distrutta piuttosto che tollerare il minimo spazio vuoto. Questa ripugnanza della natura per il vuoto, così enunciata, è un principio animistico che trasferisce alla natura le nostre fobie(3); ma non fu contestato prima della rivoluzione scientifica del XVII secolo.
Galileo fece uso di spiegazioni connesse con l’«horror vacui»; ma riteneva che la ripugnanza della natura fosse talvolta superabile. Un primo esempio della ripugnanza per il vuoto ci viene dalla interpretazione del funzionamento del termoscopio, che Galileo Galilei costruì a Padova tra la fine del 1606 e il l607, secondo la ricostruzione di Stillman Drake(4).
Il termoscopio è l’antenato del termometro: non misura le temperature, ma permette di stabilire quale tra due corpi ha la maggiore temperatura. Il termometro con una scala oggettiva di lettura non apparve, infatti, prima del 1700.
Possediamo una eccellente descrizione del termoscopio in una lettera di padre Benedetto Castelli, discepolo e poi amico affezionato e collaboratore di Galileo(5).
Questi aveva mostrato a Castelli lo strumento «da esaminare i gradi del caldo e del freddo» circa trentacinque anni prima. Lo schizzo in fig. 1 è di Castelli: lo strumento era composto da una boccia di vetro, la «caraffella››, grande quanto un uovo di gallina e con un collo lungo due o tre palmi e sottile come stelo di grano.
Si scaldava la «caraffella» tra le palme delle mani; lo strumento veniva poi capovolto, e la bocca tuffata nell’acqua di un vaso sottostante. La caraffella si raffreddava quando si allontanavano le mani; e si poteva osservare l’acqua del vaso salire nel collo dello strumento, anche più di un palmo. La spiegazione del funzionamento data da Castelli è molto semplice: l’aria della caraffa si contrae con il raffreddamento, e il suo posto è preso dall’acqua(6).
Galileo è più esplicito. In un frammento, di data incerta, ha descritto così l’ascesa dell’acqua: «… l’acqua salirà ad occupare il posto lasciato dall’aria, perché non si abbia il vuoto (Ne detur vacuum)››.
Sembra dunque che l’acqua sale nello strumento perché non si produca un vuoto che ripugna alla natura. I termoscopi ad aria avevano tutti un difetto: anche quando la temperatura della boccia era costante, il menisco dell’acqua non era stabile. La spiegazione è divenuta possibile solo alla metà del secolo, per i contributi di Torricelli e Pascal. La pressione atmosferica sulla superficie dell’acqua nel vaso si trasmette integralmente, per il principio di Pascal, all’imboccatura del collo del termoscopio; sostiene la colonna d’acqua e anche la pressione dell’aria nella caraffella, trasmessa dalla colonna d’acqua. La pressione atmosferica è variabile, e così varia anche l’altezza della colonna d’acqua, per cause non termiche.
A questo strumento si addice forse il nome di «termobaroscopio››.
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(3) In realtà l’horror vacui è l’altra faccia dell’inconscia vertigine da cui siamo affascinati.
(4) S. Drake, Galileo, Bologna, 1988, pp. 182-83.
(5) B. Castelli, Lettera a V. Cesarini, 20 settembre 1638, in Galilei, Opere, XVI, pp. 357-80.
(6) Era regola delle scuole filosofiche citate da Galileo «frigidi est condensare», ma non sempre il freddo restringe: l’esempio del ghiaccio e dell’acqua è noto a tutti.
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L’enigma delle 18 braccia.
Nel XV secolo la pompa aspirante assunse grande importanza, e i dispositivi per il sollevamento delle acque rivelarono molti progressi. Non furono inventati nuovi congegni, ma furono molti i perfezionamenti, dovuti soprattutto all’uso dei metalli in sostituzione del legno; la pompa aspirante ha precorso la macchina a vapore.
In fig. 2 se ne vede un tipo molto semplice tra le molte mostrate da Agricola (G. Bauer). Sulla sorgente è posta una piattaforma attraverso la quale passa un tubo che è spinto fino al fondo della sorgente e fissato con ganci di ferro. La parte inferiore del tubo è contenuta in un tronco [D] cavo come il tubo, chiuso in fondo ma con aperture per l’ingresso dell’acqua. Nella parte superiore di questo tronco è posta una valvola che non permette all’acqua aspirata di tornare indietro. Un’apertura [G] in alto serve allo scarico dell’acqua nel canale di scolo.
Il pistone porta un disco circolare a tenuta, con cinque fori a stella che possono essere coperti.
Quando l’addetto alla pompa tira in alto il pistone, l’acqua che è entrata dai fori del disco, che ora è coperto, viene innalzata fino allo sbocco. Si apre allora la valvola sul tronco, e l’acqua nel tronco è aspirata e sale nel tubo.
Quando il pistone è spinto in basso, la valvola si chiude e altra acqua passa attraverso i fori del disco.
Galileo fu indotto a studiare la questione del vuoto da problemi di ingegneria idraulica. L’insegnamento di Ostilio Ricci lo aveva predisposto a guardare alla matematica anche con occhi di ingegnere; e nei diciotto anni trascorsi a Padova ha intessuto un nutrito carteggio con ingegneri e sovrintendenti alle opere civili e militari su questioni di matematica e fisica riguardanti la balistica, le fortificazioni, ma anche la canalizzazione dei fiumi e il sollevamento delle acque(7). E fu il sollevamento delle acque a presentargli un quesito che per lungo tempo lo lasciò «con la mente ingombrata di maraviglia e vota di intelligenza››.
Nei Discorsi l’enigma sorge dallo svuotamento di una cisterna. Lo svuotamento avviene per attrazione; vale a dire che il dispositivo di aspirazione è posto in alto, all’estremità superiore del cannone, il tubo cilindrico che convoglia l’acqua. L’ordigno faceva il suo lavoro, e il livello dell’acqua scendeva regolarmente nella cisterna; ma scesa l’acqua a una certa profondità, il dispositivo si era fermato. L’acqua aveva superato il dislivello di 18 braccia, e questo è un limite invalicabile nel sollevamento dell’acqua per attrazione. Il motivo è semplice, per noi, e la pompa della fig. 2 fa al caso nostro. Se Po è la pressione atmosferica che si esercita sulla superficie dell’acqua della sorgente, l’acqua è aspirata solo quando Po supera la pressione della colonna dell’acqua sulla base. Non può esserci aspirazione se Po è inferiore alla pressione dell’acqua sul tubo. La pressione atmosferica media, al livello del mare, corrisponde per definizione alla pressione esercitata da una colonna d’acqua alta 10,33 metri, 18 braccia circa, quando la colonna d’acqua nella pompa raggiunge l’altezza di 18 braccia non c’è più aspirazione, ed è evidente che l’altezza limite di aspirazione dell’acqua varia con il variare della pressione atmosferica. Con l’alta pressione l’acqua sale di più che con la bassa pressione. Galileo ha esposto la sua soluzione nei Discorsi, utilizzando il modello della «corda di acqua››. Se una corda di rame sospesa in alto è continuamente allungata con del rame, fermo restando il diametro della corda, non c’è dubbio che infine sarà strappata dal suo stesso peso; allo stesso modo si comporta un cilindro d’acqua, fissato in alto sul disco del pistone e allungato senza sosta: raggiungerà il limite di rottura. E per l’acqua la rottura è molto più agevole, perché le parti dell’acqua mancano «del tenacissimo attaccamento delle parti» che è nel ferro o in altra materia solida. L’acqua invece deve la sua coesione, alla «resistenza del vacuo››, la resistenza alla divisione dei corpi che nasce dalla ripugnanza della materia per il vuoto. Lo si comprende immaginando due piastre levigate squisitamente, di marmo, di metallo, o di vetro, perfettamente sovrapponibili, in modo che tra le superfici affacciate non resti alcunché di materiale. Quando si cerca di separarle tenendole equidistanti, la ripugnanza per il vuoto è tanto forte che la piastra superiore si tira dietro l’altra e la tiene perpetuamente sollevata, quali che siano il suo peso e il suo volume.
«Traspare qui – osserva Galileo – l’orrore della natura nel dover ammettere, anche solo per un tempuscolo, lo spazio vuoto che rimarrebbe tra le piastre, prima che il concorso delle parti dell’aria circostante lo possa occupare››.
Galileo dimostra anche che il moto nel vuoto non è istantaneo, come voleva Aristotele, e perciò «il vacuo talora si concede, sia pure con violenza e contro natura››. La resistenza del vuoto non risiede solo tra le piastre dell’esempio precedente, ma risiede allo stesso modo tra le parti dei solidi, e contribuisce alla loro coesione. Galileo ha proposto questa definizione per la resistenza del vuoto: «Tutte le volte che noi peseremo l’acqua contenuta in 18 braccia di cannone, sia largo o stretto, haremo il valore della resistenza del vacuo nei cilindri di qualsiasi materia solida, grossi quanto sono i concavi dei cannoni proposti››. Secondo la definizione dobbiamo eguagliare il peso di una colonna d’acqua alta ho = 18 braccia e peso specifico relativo 1 al peso di un cilindro materiale, con la stessa sezione G, con altezza al limite di rottura h, dovuta anch’essa alla resistenza del vuoto, e peso specifico g.
Si ha: ho ∙ G = g h G, ossia ha = 7 h (l). La (1) permette di calcolare, date le 18 braccia di ho le altezze limite di tutti i materiali; Galileo ponendo eguale a 9 il peso specifico del rame rispetto all’acqua, dalla (1) ha trovato per il rame h = 2 braccia. Ma la resistenza del vuoto e indeterminata: non può essere misurata dal peso di un cilindro d’acqua, perché il peso dipende dalla sezione, mentre la sezione del cannone non influisce sulla resistenza del vuoto e sull’altezza limite h. E se questa, come sappiamo, dipende dalla pressione atmosferica, ne deve dipendere anche la resistenza del vuoto, cosa assai improbabile. Si può concludere che la resistenza del vuoto è un costrutto ad hoc, inventato per dotare di coesione l’acqua, e deriva da un principio, quello dell’horror vacui, non ben fondato fisicamente.
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(7) G. Galilei, Discorsi e dimostrazioni matematiche intorno a due nuove scienze, a cura di Carugo e Geymonat, Boringhieri, 1958, pp. 605-607.
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Il sifone
Prima di esporre il modello della corda d’acqua nei Discorsi, Galileo lo aveva comunicato al genovese Giovan Battista Baliani, valente cultore di fisica, e suo buon amico e seguace.
Nel 1630, Baliani aveva chiesto lumi a Galileo su un sifone che avrebbe dovuto portare l’acqua dalle colline genovesi in città, ma non lo faceva(8).
Nella fig. 3 in A è la presa d’acqua, in B lo scarico; la linea di livello è CA. Il massimo di dislivello DE imposto all’acqua era di 36 braccia, D era l’imbuto per il riempimento del sifone e il suo innesco.
Accadeva che quando si chiudeva D l’acqua uscisse da un lato e dall’altro, come se nel canale ci fossero infiltrazioni d’aria; ma non si erano trovate fessure. E succedeva anche che, quando l’acqua da D scendeva verso la bocca A, aperta. Il suo flusso si arrestava quando il tratto DF era
vuoto; la bocca A, aperta, il suo flusso si arrestava quando il tratto DF era vuoto; la quota di F era la metà di DE, cioè 18 braccia. Il tubo DA si comportava come un barometro ad acqua, come vedremo.
Galileo si disse dispiaciuto di non essere stato consultato prima dell’acquisto del materiale (9). Avrebbe potuto far risparmiare quella spesa, «dimostrando l’impossibilità del quesito, la quale dipende da un problema meraviglioso assai» che credeva di aver risolto: il problema delle 18 braccia. Galileo espose a Baliani le sue idee sulle corde d’acqua e sulla resistenza del vuoto, e fece osservare che anche un dislivello inferiore alle 36 braccia avrebbe potuto strappare la corda d’acqua nel canale; né giovava l’inclinazione, perché la maggior lunghezza, e quindi la maggior quantità di acqua nel canale inclinato, compensava esattamente l’aumento di resistenza del peso sollevato verticalmente(10).
Quanto al tratto A F del canale, la corda d’acqua è al limite di aspirazione, e non può essere ulteriormente allungata. Baliani riconobbe di non aver distinto il sollevamento per attrazione dal sollevamento per impulso, in cui il limite è unicamente dato dalla resistenza dei tubi; per questo non c’è limite di mandata.
Baliani credeva nelle possibilità del vuoto, da quando Galileo gli aveva indicato un metodo per pesar l’aria: e riconobbe questo vuoto (vuoto barometrico) nel tratto DF del sifone. Noi non sentiamo il peso dell’aria, stando nella sua immensità, perché l’aria ci spinge egualmente da tutte le parti (principio di Pascal); ma se potessimo stare nel vuoto, sentiremmo tutto il peso dell’aria sulla testa: è quel che succede nella colonna barometrica, sostenuta dalla pressione atmosferica. Il peso dell’aria è forse molto grande, ma non infinito; con una forza proporzionata a quel peso si potrebbe fare il vuoto, separando l’aria. Galileo lasciò cadere il promettente approccio di Baliani e aderì fino in fondo al modello della corda d’acqua, e della resistenza del vuoto. Egli insegnò a pesare l’aria, ma non comprese il ruolo della pressione atmosferica, lasciando la scoperta ai suoi allievi, ma certamente, nel lavorìo che precedette la scoperta di Torricelli, fu un punto di riferimento insostituibile.
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(8) Lettera di G. B. Baliani a Galilei, 27 luglio 1630, Opere, XIV, pp.l24-25.
(9) Lettera di Galilei a G. B. Baliani 6 agosto 1630, Opere, XIV, pp. l27-30.
(10) La natura non si può ingannare: in tutti gli strumenti meccanici «quanto si guadagna di forza per mezzo loro si scapita nel tempo e nella velocità›› (La Meccanica, Opere, II. p. 85).
L’esperienza di Torricelli.
Evangelista Torricelli, membro della scuola galileiana di Roma, fu mandato da padre Castelli ad Arcetri, dove fece da segretario a Galileo, nei suoi ultimi tre mesi di vita (1642). Nel 1644 esegui il suo esperimento barometrico, e lo descrisse in una lettera, divenuta molto nota, al discepolo Michelangelo Ricci(11).
Il programma di Torricelli prevedeva non solo la produzione del vuoto, ma anche la costruzione di uno strumento con cui osservare le variazioni dell’aria «ora più grave e grossa ed ora più leggera e sottile››: un barometro. Torricelli poneva la questione del vuoto in questo modo: «Molti hanno detto che il vuoto non si dia, altri che si dia, ma con ripugnanza della natura; non so già che alcuno abbia detto che si dia senza fatica, e senza resistenza della natura». Torricelli intendeva eliminare il ricorso alla ripugnanza del vuoto, e la sostituì con una causa esterna ai fenomeni in cui si supponeva agisse l’horror vacui. Questa causa era il peso dell’aria, da cui deriva il concetto di pressione atmosferica. Nella lettera a Ricci il fisico scriveva: «Noi viviamo sommersi nel fondo d’un pelago di aria elementare, la quale, per esperienza indubitata, si sa che pesa, e tanto, e questa grossissima vicino alla superficie terrena pesa circa la quattrocentesima parte del peso dell’acqua (1: 400 e il valore accreditato da Galileo nei Discorsi, che Torricelli assume). L’esperienza richiede mercurio puro, senza bolle d’aria, e una certa destrezza: in fig. 4 A indica un vaso di vetro, grosso e lungo circa due braccia (120 cm). Lo si riempie di mercurio, se ne chiude la bocca con un dito, e si rovescia in una catinella dove è stato messo altro mercurio. Il vaso comincia a vuotarsi, e dopo qualche librazione si stabilizza all’altezza di «un braccio, un quarto e un dito in più(12)››.
Per mostrare che nello spazio AE è stato fatto il vuoto, si versa dell’acqua nella catinella, e poi si estrae gradualmente il vaso. Quando la sua bocca arriva all’acqua il mercurio scende rapidamente, mentre l’acqua si inoltra nel vaso fino alla sommità E, riempiendolo tutto.
Torricelli postulava che una regione di spazio svuotata di tutta la materia comune e dei gas, si potesse considerare vuota. Il fatto più importante sta nel mercurio che si sostiene nel collo AD, nonostante il suo forte peso, e nello svuotamento dello spazio AE. Il fisico faentino negò che la forza che sostiene il mercurio potesse derivare dalla ripugnanza del vuoto e che sostanze aeree, sottilissime, potessero attrarre la colonna di mercurio. «Io pretendo – dichiarò Torricelli – che la forza sia esterna al vaso e venga di fuori: …sulla superficie del liquore che è nella catinella gravita l’altezza di cinquanta miglia d’aria››. Perciò non c’è da meravigliarsi se nel vaso CE in cui non c’è nulla entri il mercurio e s’innalzi tanto da equilibrare la gravità dell’aria esterna che lo spinge. In un vaso simile, ma molto più lungo, l’acqua salirà fino a 18 braccia, tanto più in alto del mercurio, quanto il peso specifico del mercurio è maggiore di quello dell’acqua. Le colonne di acqua e mercurio, di lunghezza diseguale nella proporzione 1: 13,6 , hanno lo stesso peso, a parità di sezione, e possono equilibrare la pressione esterna che è la stessa per entrambe. L’atmosfera, come unità di pressione, è nata per indicare il valore medio della pressione atmosferica al livello del mare; e per fissare le idee supponiamo che la pressione atmosferica abbia il valore di 1 atmosfera, per convenzione equivalente a una colonna di 760 mm di mercurio.
Il peso specifico del mercurio rispetto all’acqua è 13,6. La colonna d’acqua che equilibra questa colonna di mercurio è data da:
ho = 13,6 × 0,76 = 10,33 metri: sono circa 18 braccia.
Il limite di aspirazione dell’acqua, che si raggiunge quando la pressione atmosferica eguaglia la pressione della colonna d’acqua sulla sua base, si aggira sulle 18 braccia, ma non e fisso: dipende dalla pressione atmosferica effettiva del luogo dove è istallata la pompa.
Torricelli concluse la sua esposizione osservando di non essere riuscito nel suo intento principale, la realizzazione del barometro, perché inaspettatamente aveva trovato che il mercurio era molto sensibile al caldo e al freddo. Infatti un barometro di tipo torricelliano è inseparabile dal termometro che permette di tener conto della dilatazione termica del mercurio e della scala di lettura.
Alla morte di Galileo, Torricelli prese il suo posto come matematico del granduca, ma rifiutò il titolo di filosofo, che forse riteneva pericoloso. Morì prematuramente cinque anni dopo il maestro, lasciando inediti che, se fossero stati conosciuti quando era in vita, avrebbero fatto di lui un leader della rivoluzione scientifica.
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(11) E. Torricelli, Lettera a Michelangelo Ricci dell’11 giugno 1644, in Le opere dei discepoli di Galileo, a cura di P. Galluzzi e M. Torrisi, Ed. Giunti Barbera ristampata nel 1975, pp.123-25.
(12) Un braccio e un quarto sono 73 cm; ma quel che importa è la stabilità del mercurio. Il valore che si legge dipende, oltre che dalla pressione atmosferica, dal luogo e dalla temperatura.
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Il barometro ad acqua di Gaspare Berti.
Gaspare Berti faceva parte insieme con Torricelli della scuola galileiana di Roma diretta da padre Castelli. Era un eccellente sperimentatore: gli esperimenti di fig. 5 e 6 erano intesi a verificare il significato delle 18 braccia, e la natura del vuoto lasciata dall’acqua nei tubi barometrici.

Il tubo AB di Fig. 5, lungo quasi 11 metri, veniva riempito con acqua insieme al serbatoio MN, evacuando l’aria; poi i rubinetti G, A, B venivano chiusi.
Aprendo il rubinetto inferiore B, si osservava l’acqua scendere fino al livello L, distante da B circa 18 braccia; lo spazio superiore a L appariva vuoto. La fig. 6 permette di valutare le grandi dimensioni dell’apparato, richieste dall’uso dell’acqua, 13,6 volte più leggera del mercurio con cui Torricelli aveva semplificato notevolmente l’esperienza.
Berti sistemò l’apparato davanti alla sua casa. La palla CD e il tubo barometrico AL venivano completamente riempiti, eliminando l’aria, dalla pompa posta sulla finestra più vicina alla palla, e collegata a questa da un tubo, munito di una valvola A di arresto del fluido, al termine del riempimento.
Aprendo il rubinetto all’estremo inferiore del tubo, l’acqua scende fino al livello L alto circa 18 braccia sopra l’acqua del vaso a terra; lo spazio lasciato dall’acqua sopra L appariva vuoto. Gli esperimenti di Berti sono anteriori a quelli di Torricelli, e si sono avute dispute tra gli studiosi sulla priorità dell’invenzione.
Si può dire che l’interpretazione fisica degli esperimenti completa è di Torricelli, che Torricelli progettò anche un barometro, ma Berti è stato veramente il primo a fare il vuoto.
La controversia del vuoto.
Padre Marino Mersenne. appassionato sperimentatore, era in contatto con gli studiosi di tutta Europa; avuta la lettera di Torricelli da Ricci provvide alla sua diffusione. Nei decenni che seguirono la scoperta del vuoto, gli esperimenti con il vuoto conobbero una grande fortuna.
Sono molto noti gli emisferi di Magdeburgo: nel 1654, Otto von Guericke, borgomastro di Magdeburgo, aveva costruito una pompa per vuoto, e vuotò due emisferi di un metro di diametro; due tiri a otto di cavalli di Pomerania non riuscirono a staccarli: eccellente dimostrazione della intensità della pressione atmosferica. Robert Boyle perfezionò la pompa di Guericke, e poté scoprire il legame tra pressione e volume di un gas, a temperatura costante.
La controversia sul vuoto si accese immediatamente dopo la scoperta di Torricelli, ma né lui né la scuola galileiana parteciparono alla disputa. L’incriminazione romana della fisica di Galileo suggeriva che quando non c’è libertà di vita è opportuno astenersi anche dalle parole; conviene dissimulare, tanto più che i Gesuiti erano fortemente coinvolti nella questione e avevano messo in campo i loro migliori scienziati.
A sostegno del vuoto emerse il pensiero di Pascal, che portò importanti contributi alla statica dei fluidi. Pascal aveva anche il gusto per le dimostrazioni spettacolari: fece portare un barometro sopra i mille metri del Puy de Dôme, in Alvernia, e controllando a valle la costanza delle condizioni atmosferiche scoprì nel barometro in quota una depressione di 8 cm. Agli accademici del Cimento fu sufficiente l’altezza delle torri fiorentine, per dare la stessa dimostrazione. La conseguenza pratica è che il barometro può essere usato come altimetro: misurando le pressioni atmosferiche in due località se ne può conoscere la differenza di quota.
Una scoperta molto importante fu che la luce, a differenza del suono, si propaga nel vuoto. I gesuiti riempirono il vuoto torricelliano di sostanze eteree, e lo fece anche Huygens: la luce era per lui una propagazione di onde (1690); e nel vuoto assoluto sarebbe mancata l’entità che oscilla, il soggetto del verbo ‘ondulare’. Un etere era d’obbligo, e così fu anche per Fresnel, Maxwell e per la quasi totalità dei fisici. L’etere è stato dichiarato superfluo solo nel 1905, con il lavoro sulla relatività di Einstein, né i fisici si sono adeguati tutti e subito.
La propagazione della luce in uno spazio completamente vuoto aveva per i gesuiti profonde implicazioni di teologia dogmatica, avendo avuto essi la brillante idea di mescolare la fisica di Aristotele con la teologia. Una luce capace di propagarsi nel vuoto, senza alcun supporto sostanziale, è un puro accidente. E i puri accidenti, separati dalla sostanza, non possono esistere, secondo Aristotele(13).
Accidenti senza sostanza si hanno solo nel miracolo della transustanziazione eucaristica. Dopo la consacrazione le specie eucaristiche, il pane e il vino, appaiono identiche a come si sperimentano ordinariamente; in realtà, sono divenuti accidenti senza sostanza; la sostanza, miracolosamente, è il corpo e il sangue di Cristo.
La luce per i gesuiti doveva necessariamente inerire a un soggetto, altrimenti il miracolo degli accidenti eucaristici, sussistenti senza la primitiva sostanza, non sarebbe più stato un miracolo, ma qualcosa di naturale, che si sarebbe potuto osservare nella propagazione della luce.
La commistione di fisica aristotelica e teologia dogmatica non ha reso un buon servizio al mistero religioso. È quello che Galileo ha scritto nella lettera a Madama Cristina di Lorena, granduchessa di Toscana, nel 1615.
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(13) Cfr. P. Rodondi, Galileo eretico, Einaudi, 1983, pp. 257-87.
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Il vuoto non è vuoto.
Aristotele pensava che una regione di spazio totalmente vuota non potesse esistere, e anche la fisica attuale sostiene un punto di vista simile.
Si può pensare che immense distese vuote debbano esistere negli spazi profondi, intergalattici: in realtà questi spazi contengono radiazioni elettromagnetiche, e tale è la radiazione di fondo cosmica, residuo fossile del Big Bang; ma anche gli elusivi neutrini, le onde gravitazionali, la materia oscura, che non si osserva, ma deve esserci. Una regione svuotata di tutta la materia ordinaria, è tutt’altro che vuota; possiede una struttura complessa che non si può eliminare.
Ma se il vuoto non è vuoto, perché lo chiamiamo cosi? In realtà, i fisici chiamano vuota una regione quando è stata svuotata di tutto ciò che può essere allontanato con i mezzi sperimentali. Il vuoto è il vuoto che si può produrre sperimentalmente, eliminando la materia visibile, solidi, liquidi, gas. Lo spazio è ancora pieno di radiazione elettromagnetica; in parte è radiazione termica, e può essere eliminata con il raffreddamento, ma anche se si potesse portare lo spazio allo zero assoluto, rimarrebbe la caotica radiazione di punto zero, caratteristica del vuoto, e ineliminabile.
Questo dice la fisica classica; le teorie quantistiche dei campi che descrivono la fisica delle particelle elementari hanno reso il quadro più bizzarro descrivendo la creazione spontanea di materia e antimateria nel vuoto.
I processi sub-nucleari hanno trovato una efficace rappresentazione nei diagrammi di Feynman. Mostriamo ora con un diagramma una tipica fluttuazione del vuoto, in cui avviene un’effimera creazione di particelle, e la successiva annichilazione.
Le tre linee sul diagramma rappresentano le traiettorie nello spazio-tempo (x, t) di un protone p+ , di un antiprotone p–, che si distingue dal protone per l’orientamento della sua traiettoria, nel senso del tempo opposto a quello usuale, dal futuro al passato; e di un mesone π, che è necessariamente neutro.
Infatti la carica globale del terzetto era zero prima della creazione in A quando il terzetto non esisteva, e deve rimanere zero: la carica elettrica globale non si crea e non si distrugge. Le tre particelle (p+, p–, π) create in A, si annichilano dopo un tempuscolo in B, e il principio di conservazione dell’energia è violato due volte: nell’atto di creazione dal nulla in A, e nell’annichilazione in B. La natura permette questa violazione durante tempi brevissimi, tanto più brevi quanto più l’indeterminazione dell’energia, associata alla sua violazione è grande.
Le particelle del diagramma sono particelle virtuali, non osservabili, ma necessarie per spiegare l’interazione tra le particelle reali. Queste possono essere stabili, come è stabile l’elettrone. Il vuoto è allora uno spazio di sole particelle virtuali? La definizione non è possibile, perché il vuoto può essere instabile ed emettere particelle reali.
In ogni caso, il vuoto appare pieno di caotica attività, in cui ad atti di creazione si alternano atti di annichilazione; esso contiene potenzialmente tutte le forme particellari. Il vuoto non è vuoto: secondo il sutra buddista: «la forma è vuoto, e il vuoto in realtà è forma››(14)
Appendice: La determinazione del peso dell’aria.
La conoscenza del peso dell’aria è indispensabile per costruire il concetto torricelliano di pressione atmosferica. E Galileo ne diede una prima, approssimata determinazione: trovò che, a parità di volume, l’acqua pesa 400 volte più dell’aria.
L’Accademia del Cimento (1657-l667) era composta da eminenti galileisti come Viviani, Borelli, Redi, e aveva come motto «Provando e riprovando» in senso strettamente sperimentalistico: è il metodo empiristico delle prove ed errori. Tra i molti esperimenti eseguiti con una raffinata strumentazione, si trova anche la determinazione del peso dell’aria, che conserva un notevole valore didattico e si può eseguire in un laboratorio scolastico. I fatti sono sempre carichi di teoria; qui tutta la teoria necessaria è il principio di Archimede: un corpo immerso in un fluido (aria, acqua) ha un peso apparente dato dalla differenza tra il suo peso assoluto e il peso del volume del fluido spostato, che chiameremo spinta (diretta verso l’alto). In fig. 8, B è una palla di piombo chiusa piena d’aria; F è un peso zavorra.
In aria, si trova che tutto il composto pesa 31126 g (i dati sono degli accademici). Tuffato nell’acqua, con l’aiuto della zavorra, pesa 4672 g perché la spinta è:
31126 – 4672 = 26944 g.
Quando la palla viene compressa e schiacciata, diminuisce di volume (L, in figura 8); e diminuisce non solo la spinta dell’acqua ma anche quella dell’aria in cui è immersa.
Si trova che il peso in aria è ora 31219 g, con una diminuzione di 7 g. La diminuzione della spinta è di 26944 g (palla integra) – 18691 (palla ammaccata) = 8253. Questa è la spinta dell’acqua sul volume mancante della palla, ed è eguale al peso di un volume di acqua pari al volume sottratto.
Il peso specifico dell’aria rispetto all’acqua è dunque: 718253 = 1: 1179, un risultato che non è più preciso di quello di Galileo (1/400) perché il valore corretto è 1:773. Gli accademici ripeterono molte volte la misura, con risultati assai diversi. L’istruttivo commento fu: «un errore di due o trecento grammi è tutto quello che si può pretendere, quando si paragona una cosa che non muta mai di peso (la palla integra) con un’altra che non è mai la medesima (ammaccamento casuale).
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(14) F. Capra, Il Tao della fisica, Adelphi, 1999, p.249.
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Ringraziamenti.
Desidero ringraziare la dott.ssa Natalia Tizi, della Biblioteca Comunale di Fermo, per avermi concesso la riproduzione della xilografia della fig. 2 da una ristampa del De re metallica di Agricola.






















